A volte l’interrogatorio è più devastante per chi lo effettua che per chi lo subisce.
La notte del 22 dicembre 1961 il capo della stazione CIA a Helsinki, Franz Friberg, sentì suonare il campanello di casa. Insonnolito, andò ad aprire e si trovò di fronte uno sconosciuto; un uomo basso e massiccio, che in un inglese marcato da un vistoso accento russo gli disse di essere il maggiore Anatoly Klimov, dell’Ufficio Archivi del KGB: chiedeva asilo politico, in cambio avrebbe rivelato segreti della massima importanza. Inizialmente Friberg, come dichiarerà più tardi ad una commissione del Senato americano, pensò di avere a che fare con un pazzo o un provocatore e fu tentato di sbattergli la porta in faccia; invece, dopo avergli posto qualche domanda lo fece trasferire in una base americana nei pressi di Francoforte; lì, acclarata la sua identità, fu immediatamente trasportato negli Stati Uniti per essere interrogato dai migliori cervelli della CIA. Fu l’inizio della fine.
Le circostanziate dichiarazioni di Klimov, infatti, permisero, sì, di smantellare quattro reti spionistiche che i sovietici avevano installato negli Stati Uniti e nei paesi della NATO ma delineavano un quadro agghiacciante: alcuni alti dirigenti dei servizi segreti occidentali, della stessa CIA, erano, in realtà “talpe”, agenti segreti dei sovietici. Chi erano? Klimov dichiarava di non saperlo; l’unica cosa che aveva appreso, spulciando frettolosamente qualche pratica segretissima finita negli archivi del KGB, era che i russi avevano favorito le loro carriere, ad esempio, consegnando ad essi alcune spie sovietiche. Un atroce dubbio si insinuò allora nella CIA: Klimov era veramente sincero o era una “polpetta avvelenata” lanciata dal KGB per distruggere la coesione dei servizi segreti occidentali? Per ben tre mesi il militare russo fu sottoposto alle più svariate tecniche di interrogatorio per acclarare questo enigma che, comunque, è rimasto tale; intanto l’ombra di un paranoico sospetto – che trasformava rivalità burocratiche in insinuazioni o, addirittura, in accuse di tradimento – paralizzava le attività della CIA e di altri servizi segreti occidentali. Stimati funzionari con anni di servizio alle spalle furono costretti al licenziamento e qualcuno tra questi andò a lamentarsi con i giornalisti. Lo scandalo partorì una commissione parlamentare di inchiesta che, se non è riuscita ad appurare la verità sul “caso Klimov”, (solo nel 1993 si è scoperto che Aldrich Ames, il dirigente della CIA che soprintendeva agli interrogatori di Klimov, era al soldo del KGB), almeno ha fatto conoscere all’opinione pubblica la, fino ad allora segreta, “scienza dell’interrogatorio”, codificata in un documento della CIA recentemente declassificato: il Kubark Counterintelligence Interrogation.
I tentativi di trovare un modo “scientifico” per ottenere una piena confessione, comunque, risalgono, almeno al 1840 quando un clinico francese, Moreau de Tours, riferì che, durante il dormiveglia provocato da alcune sostanze, il paziente parla in modo, più o meno, incontrollato e può rivelare così i suoi altrimenti inconfessabili segreti. Questa considerazione determinò l’uso del protossido di azoto, del cloroformio, e dell’hashish, negli interrogatori che venivano condotti da poliziotti alla Sûreté di Parigi e da “alienisti” (antesignani dei moderni psichiatri) quali Magnan e Babinski. Nel 1931 Henry House battezza come “siero della verità” la scopolamina, un sostanza contenuta in alcuni vegetali, (quali la nostrana Mandragora Mandragora autumnalis o, ancora di più, in un arbusto, lo Hyoscyamus niger); analogo titolo si conquistano altre sostanze quali la mescalina, (prodotta dal fungo Peyotl cactacea), e barbiturici di sintesi quali Amital, Pentothal, Nembuthal, Evipan… Negli anni “60 l’LSD (dietilammide dell’acido lisergico) suscita gli entusiasmi di alcuni ricercatori; primo tra tutti il dottor Donald Ewen Cameron, consulente della CIA e direttore del tenebroso “Progetto Mkultra” finalizzato a scoprire infallibili metodi per ottenere una completa confessione e le tecniche di “lavaggio del cervello” che si ipotizzava fossero state impiegate da farmacologi e psichiatri dell’Est per trasformare, ad esempio, ex prigionieri americani della guerra di Corea rientrati in patria in risoluti pacifisti. Dopo dieci anni di fallimentari esperimenti, il Progetto Mkultra fu chiuso. L’unico risultato sono state cinquanta persone con il sistema nervoso gravemente compromesso dalle altissime dosi di LSD somministrate da Cameron; nel 1988, dopo un processo durato quindici anni, sono state risarcite dal governo americano con 750.000 dollari a testa.
Messo da parte l’inaffidabile LSD, alla metà degli anni 80 le speranze di ottenere il “siero della verità” si appuntano su alcune sostanze ottenute dalla metilendiossimetamfetamina (MDMA) che, a sua volta, discende da una molecola, l’MDA, brevettata in Germania nel 1914 e destinata come “droga di battaglia” per le truppe del Kaiser. Fino al 1990 l’MDMA, ideata dal neurochimico Alexander Shulgin, veniva impiegata in psichiatria nel tentativo di indurre maggiore capacità di autoanalisi poi il suo uso è stato proibito e da allora, questa droga, prodotta clandestinamente in innumerevoli laboratori e unita a intrugli vari, viene spacciata come “Ecstasy” tra il “popolo delle discoteche”.
Ma “funzionano” davvero i sieri della verità? Secondo due psicologi americani, David Orne e James Gottschelck, il loro effetto, al di là dell’abbassamento della soglia di vigilanza, è sostanzialmente psicologico in quanto inducono nel soggetto che le ingerisce, e che si trova sotto stress per l’interrogatorio, una sorta di “alibi” per cedere. Esperimenti effettuati con placebo (una innocua pillola zuccherata spacciata per un potentissimo siero della verità) hanno, infatti, in molti casi indotto il soggetto a credere di essere stato drogato e a raccontare tutto senza alcun rimorso o paura di biasimo.
Ma se la “verità” non la si può estorcere, perché non tentare, almeno, di segnalare le bugie? Già nel 1895 Cesare Lombroso per scoprire nelle “palpitazioni” la “prova” delle menzogne dell’interrogato usava un apparecchio di sua invenzione, l’idrosismografo, nel quale la mano dell’interrogato, immersa in un recipiente pieno di acqua, trasmetteva il ritmo del polso e le variazioni della pressione sanguigna ad un tubo di gomma e, quindi, ad un ago ricoperto di nerofumo che tracciava una striscia di carta. Negli anni seguenti si scoprì che in una persona sottoposta ad uno stress, come quello che si determinerebbe quando dice una bugia, si verifica quello che allora era chiamato “riflesso psico-galvanico” (e cioè, una variazione nella resistenza della pelle al passaggio di elettricità) e una variazione del ritmo respiratorio. L’americano Leonard Keeler costruì, quindi, nel 1939, un dispositivo che registrava simultaneamente la cadenza del polso, la pressione sanguigna, il ritmo respiratorio e il riflesso psico-galvanico, battezzandolo poligrafo o “Lie Detector” (rivelatore di bugie).
In realtà il responso del poligrafo, che si limita a registrare improvvisi “turbamenti”, dipende dalla scelta e dall’opportuna distribuzione delle domande e dalla interpretazione che si da del tracciato. Per di più, l’interrogato durante la prova, può ingannare la macchina, ad esempio infliggendosi dolore, controllando la respirazione, contraendo impercettibilmente i muscoli delle braccia e delle gambe…Per vanificare quest’ultimo espediente Walter Reid negli anni “80 accessoriò il poligrafo con due cuscini pneumatici sistemati sotto gli avambracci e sotto le cosce dell’interrogato che registrano le pur minime contrazioni muscolari. È solo uno dei tanti stratagemmi messi a punto dai tecnici del Lie Detector che oggi si avvale di innumerevoli sensori collegati a potenti computer. Nonostante ciò, nel febbraio di quest’anno, la Corte Federale degli Stati Uniti ha stabilito che questa macchina non può essere impiegata in un procedimento penale, nemmeno come ultima carta in mano all’imputato per dimostrare la propria innocenza. Ovviamente, la decisione ha scatenato un mare di polemiche anche perché proprio in quei giorni un ministro israeliano è stato costretto alle dimissioni dalle accuse di molestie sessuali, accertate dal Lie Detector, di una sua segretaria.
Intanto un’altra “macchina della verità” si affaccia sulla scena; il FACS (Facial Action Coding System) che analizza la contrazione dei muscoli facciali coinvolti nell’espressione delle differenti emozioni. Gli ideatori della macchina, Paul Ekman e Vincent Friesen, dopo aver esaminato quasi cinquemila videoregistrazioni di diverse espressioni, hanno costruito un data base che contempla ogni contrazione muscolare della faccia, la sua durata, l’intensità… Nascerebbe da qui la capacità della macchina di distinguere la “sincerità” di una persona. L’”autentico” sorriso, ad esempio, prevede la contrazione dei muscoli gran zigomatici, che fanno sollevare gli angoli della bocca, e dei muscoli orbicolari che fanno restringere le orbite oculari. Se il sorriso non è autentico, invece, si avrebbe una differente contrazione dei muscoli e, quindi, una asimmetria tra la parte sinistra e destra del volto. Va da sé che anche il FACS può essere ingannato da un soggetto che si “immedesima” perfettamente nella parte che sta recitando o da fattori culturali, sociali ed emozionali ancora oggi impossibili da valutare automaticamente. Nonostante ciò, il FACS sta acquistando una crescente popolarità e uno dei suoi principali sostenitori, Paul Ekman, docente di psicologia alla University of California, promette che l’applicazione di nuovi microprocessori e software porteranno l’affidabilità del FACS al 99 per cento tra appena cinque anni.
Prospettive meno esaltanti, invece, per il PSE Psycological Stress Evaluation, una altra “macchina della verità” che secondo i suoi ideatori – Allan Bell, Charles McQuinston, Bill Ford – sarebbe in grado di evidenziare i livelli – emozionale, cognitivo e fisiologico – della voce umana analizzando i differenti valori di modulazione di frequenza determinati dalla variazione dell’afflusso sanguigno alle corde vocali. Nasce da qui un software, venduto anche in Italia, che promette di distinguere tra affermazioni “vere”, “false” o “manipolate”. Questo fino al maggio 1999, fin a quando, cioè, l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato non ha condannato la società produttrice del software per pubblicità ingannevole.
Messi da parte sieri e macchine, per ottenere la verità si può tentare con, l’ipnosi che effettivamente, se il soggetto collabora, riesce a fare emergere qualcosa dal buio della mente. Il caso più famoso è certamente l’interrogatorio sotto ipnosi di Trevor Rees-Jones, – unico superstite nell’incidente automobilistico nel quale, il 31 agosto 1977, morì la principessa Diana – dal quale, comunque, non si è appreso nulla di rilevante ai fini dell’indagine. Non così per un analogo interrogatorio al quale è stato sottoposto nel 1998 un cittadino di Gerusalemme che, sopravvissuto ad una autobomba, è riuscito sotto ipnosi a ricordare il viso di uno degli attentatori.
Ma, al di là di sieri, macchine, ipnosi. quali sono le tecniche per spingere una persona a confessare? Intanto la tortura che, ancora oggi, viene, più o meno istituzionalmente, praticata nella maggior parte dei paesi. Infliggere dolore per ottenere una confessione è una pratica antichissima che ha avuto una vertiginosa escalation quando, agli inizi del secolo, si è scoperto che l’applicazione di elettrodi in alcune zone del corpo rendeva rapido e meno stressante il lavoro per il carnefice. Si è passati poi alla somministrazione di anfetamine per rendere l’interrogato più sensibile alla tortura e all’”assistenza” di un medico per valutare (ad esempio misurando il rilascio nell’organismo dell’oppiode endogeno ß-endorfina o di dopamina) il livello di dolore raggiunto dall’interrogato e la ulteriore “soglia” di sofferenza raggiungibile. Comunque ancora oggi, poco si sa di questi studi e non a caso nel manuale della CIA “Kubark Counterintelligence Interrogation” numerosi paragrafi dedicati alle tecniche di “interrogatorio coercitivo di fonti resistenti” sono stati censurati nella versione resa pubblica.
Ma occupiamoci ora di tecniche di interrogatorio meno efferate. Un metodo antichissimo e che, in America negli anni “20, è stato battezzato come tecnica “Mutt and Jeff”, consiste nell’alternare un interrogante brutale, rabbioso, dominatore, in visibile contrasto con un interrogante cordiale e calmo al quale l’interrogato finirà per affidarsi e confidarsi. Ma questi sono sistemi “artigianali”. La vera “scienza dell’interrogatorio” nasce in Occidente negli anni 50 con il rientro negli Stati Uniti di prigionieri di guerra sottoposti ad interrogatori dai nord coreani. Da una ricerca su 759 militari, condotta dallo psicologo, Howard Hinkle, la CIA ricavò una serie di direttive che codificheranno gli interrogatori degli innumerevoli profughi riversatisi in Occidente, soprattutto a seguito delle repressioni susseguitesi alla rivolta di Budapest, nel 1956 e alla “primavera di Praga” nel 1968. Secondo queste direttive l’interrogatorio deve essere preceduto da uno screening effettuato da un intervistatore, eventualmente coadiuvato da un Lie Detector, finalizzato ad acquisire informazioni sulla vita familiare e quindi sulla personalità del soggetto che saranno poi utilizzate dall’interrogatore.
Il lavoro di quest’ultimo comincia predisponendo la stanza dell’interrogatorio. Secondo le disposizioni della CIA, questa non dovrebbe avere elementi di distrazione come un telefono che può squillare, quadri o pareti dipinte con colori vivaci; la presenza o meno di una scrivania deve dipendere non dalla comodità dell’interrogante ma, piuttosto, dalla prevista reazione del soggetto ad apparenze di superiorità e ufficialità. Se si prevede un “interrogatorio di tipo non coercitivo con una fonte cooperativa” l’interrogato dovrà avere a disposizione una poltrona imbottita; se si tratta, invece, di una “fonte resistente” una luce puntata sulla sua faccia può risultare utile. In quest’ultimo caso l’interrogato dovrebbe avere già subito un trattamento finalizzato a porlo in condizioni di assoluta dipendenza dall’onnipotente interrogante che potrà avergli concesso o meno il diritto di dormire, mangiare, lavarsi, cambiarsi d’abito; e questo per provocare nell’interrogato una regressione allo stato infantile. A questo punto comincia l’interrogatorio vero e proprio che dovrà essere calibrato sul “tipo” di soggetto precedentemente classificato dall’intervistatore.
A tal proposito la CIA ha classificato nove “tipi psicoemozionali” il loro presumibile “stato infantile” e le metodologie per interrogarli. Addentriamoci brevemente in qualcuno di questi “tipi”:
l. Il tipo ordinato‑ostinato. Sobrio, ordinato, freddo, spesso molto intellettuale, si considera superiore agli altri. Di solito è stato un “ribelle” durante la fanciullezza, facendo l’esatto contrario di ciò che gli veniva ordinato dai genitori; da adulto odia ogni autorità anche se, spesso riesce a mascherare la sua indole. Può confessare facilmente e rapidamente sotto interrogatorio anche atti che non ha commesso, per distogliere l’interrogante dallo scoprire qualcosa di significativo. L’interrogante non dovrà apparire come un’autorità utilizzando, ad esempio, minacce o pugni sul tavolo ma dovrà essere cordiale, ad esempio interessandosi ad eventuali hobby coltivati da questo tipo (solitamente colleziona monete o altri oggetti). È utile che l’interrogante e la stanza dell’interrogatorio appaiano straordinariamente lindi.
2. Il tipo ottimista. Di solito, è stato il membro più giovane di una famiglia numerosa o è nato da una donna di mezza età. Questo tipo reagisce ad una sfida rifugiandosi nella convinzione che “tutto andrà bene”, convinto di dipendere non già dalle sue azioni ma da un destino propizio. Tende a cercare promesse mettendo l’interrogante nel ruolo di protettore e di solutore di problemi. Sotto interrogatorio, solitamente, si confida davanti ad un approccio gentile, paterno. Se resiste, deve essere trattato con la tecnica “Mutt and Jeff”.
3. Il tipo avido, esigente. Ha spesso sofferto di una precoce privazione di affetto o di sicurezza che lo porta, da adulto, a cercare un sostituto dei genitori. La sua devozione si trasferisce facilmente quando sente che lo sponsor che ha scelto lo ha abbandonato. Può essere soggetto a gravi e improvvise depressioni e rivolgere verso se stesso il suo desiderio di vendetta arrivando fino al suicidio. L’interrogante che tratta con questo tipo deve fare attenzione a non respingerlo e tener conto che le sue richieste, spesso esorbitanti, non esprimono tanto una necessità specifica quanto il bisogno di sicurezza.
4. Il tipo ansioso, egocentrico. Timoroso, nonostante faccia di tutto per nasconderlo, spesso è un temerario per vanità e portato a vantarsi; quasi sempre, mente per sete di complimenti e lodi. L’interrogante, dovrà assecondare la sua esigenza di fare buona impressione e non dovrà mai ignorare o ridicolizzare le sue vanterie, o tagliar corto sulle sue divagazioni. Gli interrogati ansiosi ed egocentrici che nascondono dei fatti significativi, come contatti con servizi nemici, possono divulgarli se indotti a ritenere che la verità non sarà usata per danneggiarli e se l’interrogante sottolinea la stupidità dell’avversario nell’inviare una persona cosi intrepida in una missione così mal preparata.
5. Il tipo con complesso di colpa o incapace di successo. Appartengono a questa categoria i giocatori “coatti” che trovano sostanzialmente piacere nel perdere, masochisti che confessano crimini non commessi o che commettono davvero crimini per poi poterli confessare ed essere puniti È difficile interrogare questo tipo di persona in quanto egli può “confessare”, ad esempio, un’attività clandestina ostile nella quale non è mai stato coinvolto oppure può restare ostinatamente silenzioso o provocare l’interrogante per “godersi” poi la punizione. In alcuni casi, se punite in qualche modo, le persone con forti complessi di colpa possono smettere di resistere e cooperare, grazie al senso di gratificazione indotto dalla punizione.
Articolo di Francesco Santoianni
La “scienza dell’interrogatorio”
Pubblicato su Newton luglio 2000