Bufala pazza: prioni, psicosi, mass media
Premessa
Non si può comprendere la psicosi della “mucca pazza, le clamorose contraddizioni scientifiche che l’alimentano (come l’assurdità di una malattia infettiva che incredibilmente colpirebbe solo le mucche e non i vitelli, pure essi alimentati con le oramai famigerate farine animali, o una entità come il prione che sembra sfidare tutte le leggi della biologia), il comportamento degli scienziati (dapprima scettici e, ora che sono arrivati i finanziamenti sui prioni, tutti allineati e coperti a supportare una “teoria” divenuta ormai un dogma) un periodo di incubazione di una malattia arrivato oramai a tredici anni, (per “giustificare” una infezione che, a monte di una potenziale bacino di centinaia di milioni di persone, avrebbe colpito finora solo ottantasei persone)… se non ci si sofferma su quella che è stata un’altra epidemia, l’AIDS, che dopo venti anni di dogma e di un colossale impegno finanziario e di ricerca, oggi si scopre non essere prodotta dal virus HIV, come ha recentemente dovuto ammettere persino quel Luc Montagner che il virus HIV aveva per primo isolato. Chi volesse avere un eccezionale strumento di lettura per comprendere l’attuale psicosi della mucca pazza e, sopratutto, quello che la Scienza (con la “S” maiuscola) arriverà a produrre nei prossimi mesi o anni non ha che da leggere un libro pubblicato qualche anno fa (in Italia dalle edizioni Baldini & Castoldi) “AIDS: il virus inventato” scritto da Peter Duesberg.
I giorni della mucca pazza
“In Inghilterra sono morte per la mucca pazza 160.000 bovini”. Cosa immagina un lettore che ha la disavventura di leggere una notizia come questa? Sterminate mandrie di mucche in preda a convulsioni e tremori che si trasformano in rantoli e quindi nella morte. Ma qual’è, invece, la verità? In Inghilterra (che pure è stata la “patria” della mucca pazza) finora, dal 1985, sono stati registrati soltanto 2616 casi clinici descrivibili come “mucca pazza”: tremori, ansietà, convulsioni, distruzione del tessuto cerebrale, che si trasforma a poco a poco in una sorta di spugna (encefalopatia spongiforme…). Le altre decine di migliaia di bovini sono morti in quanto uccisi dalle autorità sanitarie perché appartenenti ad allevamenti dove si erano registrati casi clinici di “mucca pazza”; qualche altra mucca (come quella macellata nel gennaio 2001 nell’allevamento della Malpensata), invece, pur apparendo sanissima è stata classificata come “mucca pazza” perché nel suo cervello sono stati identificati gli oramai famigerati prioni.
Il quadro, come si vede, è ben diverso da quello tenebroso tratteggiato dai mass media. Ma, a proposito di mass media, cosa sa oggi una persona, che cerca di documentarsi, leggendo i giornali e seguendo trasmissioni e notiziari radiotelevisivi? Che il consumo di farine animali imposto ai bovini di allevamento avrebbero immesso in questi alcune entità biologiche (i prioni) i quali hanno scatenato una malattia detta encefalopatia spongiforme (o BSE) che produce nelle bestie convulsioni “demenza” e altre gravi sintomatologie con esito mortale: la cosiddetta “malattia della mucca pazza”; ben presto questa malattia, già individuata negli anni 50 dal Premio Nobel Gajdusek nella tribù dei Fore in Nuova Guinea, tramite il consumo di carne, si sarebbe trasmessa all’uomo dove avrebbe scatenato la variante di una rarissima malattia umana – il morbo di Creutzfeldt-Jakob – già battezzata “BSE umana”. In realtà evidenze scientifiche e alcune ricerche delineano un quadro sostanzialmente diverso che cercheremo qui di descrivere.
Ma prima, è forse opportuno domandarci chi abbia creato il caso “mucca pazza” e perché.
Perché è nata la psicosi
Probabilmente se qualcuno tra qualche anno si darà la pena di rileggere i giorni della “mucca pazza” non potrà non domandarsi sbalordito come sia stato possibile che una minaccia sanitaria davvero inconsistente, indimostrate teorie scientifiche e una sarabanda di insulse “dichiarazioni ufficiali”, immediatamente trasformate in allarmismi dai mass media, abbiano potuto, in Italia come in Europa, gettare nel panico milioni di persone. E non potrà non domandarsi quale regia abbia orchestrato questa psicosi.
Al momento, ovviamente, non abbiamo una precisa risposta a quest’ultima domanda. E, tra l’altro, non sarebbe la prima volta che una psicosi di massa attanaglia milioni di persone alimentandosi esclusivamente su un “gioco di specchi” creato – più o meno inconsapevolmente – dai mass media; chi scrive queste righe ne ha studiata una davvero singolare sviluppatasi nell’area vesuviana e flegrea e non si meraviglierebbe certo se constatasse che dietro questa psicosi costata finora centinaia di miliardi ci fosse soltanto l’esigenza dei mass media di mantenere alto l’audience e le vendite a tutti i costi. D’altra parte, la mancanza di documentate prove non deve impedire di prendere in considerazione, già da adesso ipotesi che, crediamo, siano qualcosa più di evanescenti congetture.
Intanto identificare da quali mass media sia stata innescata la psicosi e quali interessi essi rappresentano può essere un utile strumento di indagine. Oggi, ad esempio, risulta acclarato che dietro la psicosi della “mucca pazza” che, nella seconda metà degli anni 80, ha portato alla distruzione del patrimonio zootecnico bovino della Gran Bretagna, ci siano stati interessi statunitensi e francesi e, quindi, mass media da essi foraggiati. L’inaudita delegittimazione di pur competenti commissioni sanitarie e veterinarie inglesi e della Comunità Europea (ancora oggi, sciaguratamente, additati come gli “untori” dell’epidemia di BSE, magari sbandierando come “prove” di ciò un documento, scritto su carta intestata della Comunità Europea, risultato poi un colossale falso), la sapiente orchestrazione di campagne stampa basate su catastrofiche proiezioni (100.000 persone morte nel 2001 per la “mucca pazza vaneggiavano nel 1987 quegli stessi “esperti” che oggi continuano ad avere credito dai mass media), una “epidemia” bovina e umana (come cercheremo di dimostrare più avanti) esistita solo sui mass media…. sono stati gli strumenti di una delle tante guerre commerciali che si combattono ogni giorno a colpi di “scoop”.
Ma oggi, verosimilmente, dietro questa nuova campagna terroristica sulla mucca pazza potrebbe esserci qualcosa di peggio del tentativo di impossessarsi a tutti i costi un mercato come quello della carne che fattura, solo in Italia, 26mila miliardi l’anno. Potrebbe esserci l’esigenza di esasperare l’opinione pubblica per farle accettare quegli organismi geneticamente modificati che oggi, sulla scia della soia transgenica, imposta dal repentino divieto delle farine animali (che per anni sono stati accettati da numerosi stati europei nonostante già nel 1987 il Comitato veterinario della Comunità europea consigliasse una loro graduale sostituzione) stanno per inondare le nostre campagne e i nostri piatti. I fautori ad oltranza del “biotech”, la Confindustria e i suoi giornalisti, il ministro Veronesi, il gruppo editoriale Caracciolo (in primo luogo il quotidiano “La Repubblica”, che ha dato la stura alla psicosi della mucca pazza in Italia) hanno di che essere soddisfatti.
Forse meno soddisfatti sono gli altri giornalisti che, verosimilmente per non “bucare la notizia” (trascurare, cioè, una paura che, “istituzionalizzata” dal divieto di consumare carne nelle mense scolastiche, si è diffusa a macchia d’olio), si sono accodati alla psicosi accomunando, anch’essi, scene strazianti di persone distrutte dal morbo di Creutzfeldt-Jakob con riprese, ormai risalenti ad una decina di anni fa, di bovini in preda alla “mucca pazza”. E rincorrendo bizzarre dichiarazioni di politici (come quelle, ineffabili, dei ministri Veronesi e Pecoraro Scanio), inevitabili quanto controproducenti “inviti alla prudenza” degli esperti del settore sanitario, angosciose quanto inconcludenti interviste ad “esperti”… hanno fatto assurgere al ruolo di “certezza scientifica” quella che oggi, più che una ipotesi, è una credenza: i prioni.
Perché la mucca pazza
Il primo caso accertato di “mucca pazza” si verificò in Gran Bretagna quando nel 1986 il Laboratorio centrale di veterinaria di Weybridge identificò, in un allevamento nella regione dell’Hampshire, una mucca (l’oramai famigerata “mucca 133”) che presentava un allarmante quadro clinico. Oltre ad una diminuzione della produzione di latte, la bestia reagiva con paura ad ogni stimolo esterno e con la testa ciondolante restava appartata dal branco; di lì a poco, colta da contratture muscolari, digrignando i denti, morì. Ben presto altri animali dell’allevamento, colti dagli stessi sintomi, seguirono la stessa fine. Qual’era la causa di quel morbo?
Oggi ha acquisito popolarità una considerazione che Rudolph Steiner, considerato l’inventore dell’agricoltura biologica, ebbe a profferire nel 1923 durante una conferenza a Dornach in Svizzera, “Se diamo da mangiare carne ad un animale erbivoro, ben presto impazzirà”. Effettivamente le mucche, animali notoriamente erbivori, vengono nutrite con una dieta composta in parte di farine animali. Il perché si spiega considerando che un vitellone di media taglia pesa circa 560 chili, ma più di 220 (cervello, ossi, sangue, pelle, intestino, altri organi interni) sono inutilizzabili per l’alimentazione umana. Negli anni ’20 in Europa si pensò di trasformare questi scarti in polveri (farine) che essendo ricche di proteine potevano integrare il foraggio. Nel nostro continente il vertiginoso aumento del consumo di carne, (basti pensare al proliferare dei ristoranti McDonald’s) e la spietata concorrenza (accentuatasi grazie alla “deregulation” imposta anni fa dalla Comunità Europea e dall’importazione incontrollata di carne proveniente dai paesi dell’Est) ha finito per trasformare gli allevamenti in vere industrie senza pascolo dove i poveri animali, tra abominevoli vessazioni, vengono nutriti quasi esclusivamente con farine animali.
È da notare, comunque, che i casi che si registrarono nel 1986 in Inghilterra, nonostante quello che comunemente si pensa, non riguardavano animali nutriti con una dieta composta prevalentemente da farine animali. In alcuni casi, addirittura, le mucche colpite dal morbo erano state allevate con una dieta composta esclusivamente da foraggio.
Nonostante ciò, l’attenzione di qualche ricercatore si appuntò su alcune proteine, i prioni (sui quali ci soffermeremo in seguito) che avevano garantito, nel 1976, il premio Nobel a Carleton Gajdusek. Potevano questi prioni essersi accumulati, tramite le farine animali, passando di animale in animale, determinando così il morbo della “mucca pazza”? Sembrava una ipotesi suggestiva ma alcune evidenze scientifiche (sulle quali si soffermeremo in seguito) sembravano smentirla. Niente, invece, finora ha smentito una ipotesi formulata da un tale certamente sconosciuto alla totalità dell’opinione pubblica e alla stragrande maggioranza degli addetti ai lavori: Mark Purdey la cui principale “colpa” resta quella di non essere un blasonato ricercatore ma – orrore! – un autodidatta.
L’ipotesi di Purdey, un allevatore del Somerset, che ha svolto le sue ricerche pagandole di tasca propria, visto che nessun istituto scientifico ha voluto finanziarle (ma, anche su questo si soffermeremo in seguito) ipotizza un inquinamento chimico che avrebbe agito sui prioni i quali, quando sono esposti ad un eccesso di manganese e ad una carenza di rame degenerano compromettendo così le cellule cerebrali. La prima insorgenza della BSE in Gran Bretagna, ricorda Purdey, si ebbe negli anni ’80, quando il Ministero dell’Agricoltura impose a tutti gli allevatori il trattamento degli animali con un pesticida a base di organofosfati chiamato Phosmet, impiegato a dosi molto più alte che nel resto del mondo. Il pesticida veniva versato lungo la colonna vertebrale degli animali. La ricerca di Purdey mostra che il Phosmet cattura il rame. In quegli stessi anni il mangime degli animali veniva arricchito con sterco di polli proveniente da allevamenti dove gli animali erano nutriti con manganese per aumentare la quantità di uova prodotte. I prioni contenuti nel cervello dei bovini, in tal modo, venivano contemporaneamente privati di rame e intossicati dal manganese. In Francia, l’impiego del Phosmet divenne obbligatorio inizialmente in Bretagna e 20 dei 28 casi di BSE vennero alla luce proprio in quella regione. Sempre secondo le ricerche di Purdey, la diffusione della malattia coincide con quella del pesticida. Un analogo tipo di avvelenamento potrebbe spiegare la distribuzione della cosiddetta “versione umana della mucca pazza”. Dei due principali ceppi di vCJD in Gran Bretagna, uno, nel Kent si trova nel pieno di un’area con coltivazioni nelle quali vengono usate ingenti quantità di fungicidi a base di organofosfati e manganese. L’altro ceppo è a Queniborough, nel Leicestershire, dove una fabbrica di vernici (distrutta da un incendio alcuni anni fa, con grave inquinamento chimico sul paese) ha per anni riversato parte degli scarti di lavorazione nel sistema di canalizzazioni usate per irrigare i campi. Nella produzione di vernici viene usato il manganese. Ma Purdey non si è limitato a queste indagini, andando a verificare sul campo la propria teoria sui ceppi di BSE e CJD in Islanda, Colorado, Slovacchia e Sardegna. Ovunque vi siano ceppi di queste malattie, egli ha riscontrato esposizione degli animali e degli esseri umani a carenze di rame e eccessi di manganese. La maggioranza dei ceppi, inoltre, si trovano in aree montane, nelle quali i livelli di luce ultravioletta (alla quale i prioni sarebebro particolarmente sensibili) sono alti.
I prioni, quindi, potrebbero non avere avuto alcun ruolo nell’insorgenza del quadro clinico classificato come “mucca pazza” ma, lungi dall’essere trasmessi attraverso le farine animali, potrebbero essere entità biologiche ubiquitarie, presenti cioè normalmente in molti animali senza provocare alcun danno; al pari, ad esempio, degli innumerevoli virus ospitati dall’Uomo che non provocano alcunché.
È da sottolineare che questa ipotesi potrebbe spiegare fatti altrimenti inesplicabili. Ad esempio come sia stato possibile che i prioni “degenerati” siano stati identificati in mucche che non hanno manifestato alcun sintomo clinico sospetto e/o in mucche non alimentate con farine animali (come la prima “mucca pazza” italiana) o, addirittura, su mucche che avevano fino al momento della macellazione pascolato in “fattorie biologiche” poste su apparentemente incontaminate vette di montagne tedesche. Va da sé che la risposta degli “esperti in BSE” esclusivamente intenti a cercare prioni è stata arrogante e inconcludente: queste mucche registrano la presenza di prioni grazie a impalpabili frazioni di farine animali giunte sulle farine vegetali o sul foraggio o tramite un errato stoccaggio di farine nei silos o grazie al vento.
Ma prima di inoltrarci nella disamina di queste “spiegazioni, è forse opportuna una precisazione. Come già detto, chi scrive queste righe non è un biochimico e, anche se ha svolto alcuni controlli sulla ipotesi di Purdey (contattando alcuni suoi colleghi giornalisti in Inghilterra e in Francia, avendone significative conferme) di certo non ha qui la pretesa di proclamare che la “mucca pazza” è, senza ombra di dubbio, da addebitare a una banale contaminazione chimica. Una conferma o una smentita dell’ipotesi di Purdey ci sarebbe stata se una parte delle ricerche sulla BSE fossero stata orientata verso l’ipotesi della contaminazione chimica. Ma questa strada non è stata mai intrapresa né in Inghilterra né in altri paesi, visto che oggi tutte le ricerche sulla “mucca pazza” o sulla “variante umana della mucca pazza”, messi da parte epidemiologi che con le loro ricerche potrebbero delineare una ipotesi diversa da quella dei prioni, sono condotte esclusivamente da biochimici, neuropatologi, virologi… dediti alla ossessiva identificazione dei prioni. Se questi si trovano, allora la mucca macellata (anche se non presentava nessun quadro clinico) è “pazza” o lo sarebbe diventata di lì a poco; se i prioni non si trovano, la minaccia resta presente poiché avrebbero potuto manifestarsi se le si fosse dato il tempo di vivere un altro po’. Ancora più desolante appare poi la teoria dei prioni se si considera che, agli albori dell’epidemia di BSE, solo il 60 per cento delle mucche morte dopo aver presentato i sintomi della “mucca pazza” risultavano positive ai test finalizzati alla identificazione dei prioni: un incontrovertibile dato “spiegato” dagli apologeti della teoria dei prioni affermando che i primi test non erano sufficientemente precisi.
Un altro caso HIV?
Questa situazione ricalca in maniera straordinaria la situazione che caratterizzò i primordi della ricerca sull’AIDS quando si constatò che l'”epidemia” da immunodeficienza (che comportava l’insorgere di una grave forma di polmonite, la Pneumocisti carinii, e del sarcoma di Kaposi) che stava mietendo gli omosessuali di San Francisco poteva essere addebitata al consumo di nitrito di anile che la comunità gay assumeva come eccitante sessuale. Una teoria che oggi appare pienamente confermata ma che fu messa da parte quando Max Gallo e il Ministro americano della Sanità annunciarono al mondo che la causa dell’AIDS era stata trovata nel virus HIV e annunciarono un faraonico programma di ricerca tutto teso alla sconfitta di questo virus. L’accorrere frenetico dei ricercatori a questi contributi spiazzò quindi ogni altra possibile indagine epidemiologica e la teoria della contaminazione da nitrito di anile ha impiegato venti anni per ritrovare oggi il posto che merita nelle riviste scientifiche.
Come già detto, non abbiamo le competenze per affermare se la teoria della contaminazione chimica, (che tra l’altro spiegherebbe perché solo nei casi analizzati da Purdey siano state colpite da BSE oltre che mucche, anche vitelli) sia valida o meno. Una risposta potrebbe venire soltanto se si sviluppassero ricerche in tal senso. Ma, come già detto, oggi ricerche sulla BSE o sulla cosiddetta variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob – già battezzato “BSE umana” che non contemplino l’azione dei prioni, non se ne fanno.
Così come non ci risulta essere in corso nessuna ricerca che valuti le possibili alterazioni sul tessuto cerebrale determinate da un allattamento intensivo. Come già detto, ad eccezione di alcuni vitelli colpiti negli anni 80 da BSE in Inghilterra (e che potrebbero spiegarsi come conseguenza di una contaminazione chimica) tutti gli altri animali colpiti da BSE sono mucche destinate alla produzione di latte. Non esiste attualmente nessuno studio scientifico che valuti gli effetti sul tessuto cerebrale degli estrogeni con i quali, spesso, vengono imbottite queste bestie.
Esiste poi un’altra teoria, che sta anch’essa svanendo, spazzata via dai finanziamenti sulle ricerche inerenti i prioni, e che vede la possibile trasmutazione di un virus. La maggior parte dei casi di BSE, fanno notare sempre più flebilmente, i sostenitori di questa ipotesi si sono verificati in Inghilterra in allevamenti che vedevano la compresenza di numerosi bovini e ovini. È possibile, quindi che gli ovini (che, al pari del visone, del mulo, del gatto…, sono soggetti ad un tipo di encefalopatia spongiforme conosciuta come scrapie, o virosi nervosa degenerativa che si manifesta con le stesse sintomatologie della “mucca pazza” e con un prurito così intenso da indurre la pecora a raschiar via parti del mantello, “to scrape”, in inglese, da cui il nome della malattia) abbia potuto trasmettere alla mucca una qualche variante del virus.
Potrebbero, quindi, esistere differenti cause che hanno provocato la BSE. Per quanto riguarda la “ricerca” sull’AIDS tutta una serie di patologie (ben 54) sono state accomunate sotto la dicitura AIDS quando venivano identificati nel corpo dei pazienti il virus HIV o gli anticorpi a questo. Per quanto riguarda la BSE neanche questa pur scorretta metodologia scientifica viene applicata in quanto, come già detto, vengono classificate come affette da BSE mucche apparentemente sanissime nelle quali dopo la macellazione vengono identificati gli ormai famigerati prioni. Vale la pena, a questo punto, vedere da vicino cosa, secondo le ricerche in corso, sarebbero queste fantomatiche entità.
La leggenda dei prioni
Se sul virus HIV sono state prodotte oltre 120.000 pubblicazioni scientifiche (che, ovviamente, al di là di un qualche prestigio accademico per i loro estensori, non hanno dato nessun risultato concreto visto che ancora oggi non è stato prodotto alcun vaccino contro l’AIDS né una cura efficace), attualmente sono più di 7.000 le pubblicazioni scientifiche sui prioni. Nessuna di queste ultime, finora, ha spiegato come si propaghi il prione (ad esempio, come faccia una proteina a non scindersi in amminoacidi nell’apparato digerente) o perché mai una entità biologica capace di perpetuarsi in condizioni ambientali estreme (addirittura resistendo a temperature superiori ai 350 gradi) non abbia da milioni di anni colonizzato tutto il pianeta. Ma, prima di soffermarci sulla evanescenza di tutte le teorie elaborate sul ruolo infettivo dei prioni , è certamente opportuno illustrare come si è arrivati alla loro identificazione.
La “scoperta” dei prioni risale agli inizi degli anni “60 quando il neurologo americano Stanley B. Prusiner, tra lo scetticismo generale, ipotizzò che alcuni agenti infettivi, in grado di provocare malattie degenerative del sistema nervoso centrale negli animali e, più raramente, anche nell’uomo, potessero essere costituiti solamente da semplice materiale proteico, privo cioè degli acidi nucleici DNA e RNA, e che riuscissero a moltiplicarsi andando a sostituire le proteine nelle cellule dell’organismo ospite. L’attenzione di Prusiner si concentrò su alcune proteine presenti spesso in diversi mammiferi (quali pecore, mucche, visoni, cervi, gatti, uomini), codificate da un singolo esone di una singola coppia di geni presenti sul braccio corto del cromosoma 20 (nell’uomo) e che, a suo dire, sarebbero implicati nelle funzioni di sinapsi.
La presenza di prioni in animali che non presentavano alcun sintomo clinico di certo non legittimavano un loro presunto potere “infettante”. Prusiner, allora, ricorse ad un modello teorico sul quali è bene soffermarsi: il virus lento, un concetto che presuppone, a sua volta, un “periodo di latenza” di mesi o di anni tra il momento in cui il virus invade l’organismo e la comparsa dei sintomi. Nonostante una quasi plebiscitaria accettazione da parte del mondo accademico il concetto di “virus lento” potrebbe essere solo un escamotage metodologico per giustificare una qualsiasi teoria preconcetta. È bene specificare, comunque, che non si vuole qui contestare l’esistenza di infezioni latenti. Alcuni germi, come i virus erpetici, ad esempio, possono rimanere nascosti in qualche recesso del corpo e provocare riaccensioni ogni volta che il sistema immunitario è indebolito. In entrambi questi esempi, è solo il sistema immunitario indebolito dell’ospite che permette all’infezione di covare sotto la cenere o di “svegliarsi ” dall’ibernazione di tanto in tanto. Viceversa, un “virus lento”, capace cioè di “risvegliarsi” dopo anni o decenni indipendentemente dallo stato del sistema immunitario dell’organismo ospite, secondo ancora pochi ma autorevoli scienziati, tra i quali Duesberg, è una scorretta impostazione che semplicemente un trucco che può permettere a disinvolti scienziati di addebitare a un virus neutralizzato da tempo qualsiasi malattia appaia decenni dopo l’infezione.
Questo concetto del “virus lento”, alla base della teoria dei prioni come agenti infettanti vagheggiata da Prusiner è stato legittimato da una “ricerca” compiuta da Carleton Gajdusek. Ma per capire come sia stato possibile che questa incredibile “ricerca” sia stata accettata dal mondo accademico è, forse, opportuno riportare quanto riportato da Peter Duesberg (nel suo libro “AIDS: il virus inventato” Baldini & Castoldi pag, 89)
“Nel 1957 il dottor Carleton Gajdusek fu inviato in Nuova Guinea nel 1957 con una sovvenzione del NIH (National Institute of Healt). Laggiù, un medico del servizio sanitario locale gli fece conoscere una malattia chiamata kuru, una misteriosa patologia che colpiva il cervello, provocando nelle vittime spasmi ingravescenti o paralisi fino alla morte nel giro di qualche mese. La sindrome era stata segnalata solo fra le tribù che abitavano in una serie di valli, soprattutto la tribù dei Fore, in tutto 35.000 persone. Prima dell’arrivo di Gajdusek, nessuno straniero aveva mai descritto il kuru, anche se i Fore gli dissero che la malattia aveva cominciato ad apparire qualche decennio prima.
Il primo studio di Gajdusek partì dal presupposto che la malattia fosse infettiva. Il medico riferì che gli indigeni usavano mangiare il cervello dei parenti morti per fini ritualistici, una pratica cannibalistica che era cominciata circa nello stesso periodo in cui il kuru aveva fatto la sua comparsa. In seguito Gajdusek spiegò a un intervistatore che il cannibalismo ” esprimeva amore per il parente defunto” e allo stesso tempo ” costituiva una buona fonte di proteine per una comunità che non aveva carne da mangiare”. L’infettivologo decise che la via di trasmissione del kuru era l’ingestione del cervello dei malati defunti. Però, quando si mise a cercare il virus, stranamente non trovò prove. Nei pazienti non si riscontrava nessuno dei tipici sintomi di infezione: non c’era febbre né infiammazione, nessuna alteratone nel liquor che avrebbe dovuto essere infetto, il sistema immunitario non reagiva come se un agente infettivo avesse invaso l’organismo, e nelle persone immunodepresse il rischio di malattia non era maggiore che nelle altre. Di lì a poco un altro gruppo di scienziati arrivò dall’Australia e concluse che il kuru poteva essere una malattia genetica ereditaria.
Tornato negli Stati Uniti, Gaidusek fu assunto dal NIH per lavorare nel reparto malattie neurologiche. Continuando a tenere sotto controllo l’incidenza del kuru, lo scienziato si dedicò allo studio della sindrome in laboratorio. Nel frattempo notizia della sua scoperta riguardo al kuru era giunta in Inghilterra, dove un altro cacciatore di virus stava studiando lo scrapie, una malattia che colpiva le pecore e che presentava sintomi di degenerazione cerebrale. Il ricercatore inglese suggerì a Gajdusek che il kuru poteva essere provocato da un virus lento, cioè con un lungo periodo di latenza.
Gajdusek fu subito conquistato da questa teoria rivoluzionaria, nonostante contraddicesse le sue varie ipotesi secondo le quali nel kuru potevano essere in gioco geni, tossine o carenze nutritive. Deciso a scoprire un virus così sfuggente, cercò di trasmettere la malattia agli scimpanzé. Ma nessun animale si ammalò quando gli fu iniettato sangue, urina e altri fluidi corporei prelevati a persone affette da kuru. Neanche il liquido cerebrospinale che circonda il cervello, e che avrebbe dovuto essere pieno di virus, provocò effetti negli animali da laboratorio. Anzi, le scimmie non contrassero la malattia neanche mangiando il cervello di individui morti per il kuru.
Funzionò solo un esperimento piuttosto bizzarro, in cui il cervello di morti di kuru fu ridotto in poltiglia e iniettato direttamente nel cervello delle scimmie vive attraverso fori praticati nella scatola cranica. Dopo un po’, alcuni di questi scimpanzé sperimentali presentarono anomalie nella coordinazione e nel movimento. Stranamente, però, anche questo metodo drastico non riuscì a infettare decine di altre specie animali. E nessun virus fu trovato nel tessuto cerebrale, anche usando i più sofisticati microscopi elettronici.
Se non si trovavano prove di questo virus invisibile tranne che nel tessuto cerebrale non purificato, se non provocava reazioni da parte delle difese immunitarie e non si riusciva a trasmetterlo in forma pura agli animali, era logico concludere che il virus non esisteva. Lo stesso tessuto cerebrale omogeneizzato dei morti – pieno di ogni proteina possibile e immaginabile e di altri composti – avrebbe dovuto essere tossico quando veniva inoculato nel cervello, delle scimmie.
Nonostante queste prove contrarie, gli scimpanzé malati convinsero Gajdusek di aver scoperto il virus. Dato che non riusciva a isolarlo se non nel tessuto cerebrale, decise di studiare il virus e la sua struttura con un esperimento standard: avrebbe determinato quale trattamento chimico e fisico era in grado di distruggere il virus, e da questo avrebbe raccolto dati sulla sua natura, Ma con sua grande sorpresa, il germe misterioso non sembrava sensibile a nulla. Provò di tutto – sostanze chimiche potenti, acidi e basi, alte temperature, radiazioni ultraviolette e ionizzanti, ultrasuoni – ma anche dopo il trattamento il tessuto cerebrale non provocava il kuru nei suoi animali da laboratorio. Ulteriori esami accertarono che nei cervelli affetti da kuru non si trovava alcun materiale genetico estraneo, condizione necessaria a tutti i virus per vivere. Pur impiegando i più potenti trattamenti antivirali, Gajdusek non era riuscito a rendere innocuo il tessuto cerebrale dei morti di kuru. Questi risultati si prestavano a un’unica ovvia interpretazione: in primo luogo non esisteva alcun virus, e quindi non si poteva distruggere.ciò che non esisteva. Ma Gajdusek restò attaccato alla sua ipotesi virale. Nonostante gli esperimenti fossero stati deludenti, capovolse i risultati argomentando che il “virus del kuru” era in realtà un nuovo tipo di supermicrobo o, come lo definì lui, un “virus non convenzionale “. Questo nuovo virus doveva anche essere lento, dato che passavano lunghi periodi di tempo fra l’atto di cannibalismo e il manifestarsi del kuru.
Gajdusek offrì questa ipotesi a una generazione di scienziati dominata dai cacciatori di virus. La poliomielite era ormai scomparsa da anni, e i virologi finanziati dai NIH vedevano di buon occhio qualsiasi nuova linea di ricerca su cui esercitare la loro specifica abilità. Così abbracciarono con entusiasmo l’ipotesi di Gajdusek di un virus lento. Non sollevarono obiezioni neanche quando il collega sostenne che un altro virus non convenzionale, simile a quello del kuru, provocava la sindrome di Creutzfeld-Jakob, una rara malattia neurologica che sembra colpire soprattutto persone che hanno subito in precedenza un intervento al cervello (simili operazioni chirurgiche potevano ben essere sospettate di essere la vera causa della sindrome). Gajdusek ritenne virus lenti, o anche non convenzionali, responsabili di una lunga serie di malanni a carico dei nervi e del cervello, dallo scrapie nelle pecore alla sclerosi multipla e l’Alzheimer nell’uomo, e le sue ipotesi furono accolte seriamente, anche se non sostanziate da prove. Nel 1976 ricevette anche il Nobel per la medicina, in particolare per lo studio del virus del kuru e di Creutzfeld-Jakob, che deve ancora scoprire. E i NIH gli affidarono la carica di direttore del Laboratory of Central Nervous System Studies (Laboratorio di studi sul sistema nervoso centrale).
Nel frattempo è emersa un’altra informazione, piuttosto imbarazzante, che getta dubbi sull’ipotesi virale di Gajdusek per il kuru. In un numero del 1977 di “Science” fu pubblicato il suo discorso di accettazione del Nobel, corredato da una foto in cui si vedevano degli indigeni intenti al loro pasto cannibalistico. Non era un’immagine molto chiara. Quando dei colleghi chiesero a Gajdusek se la foto riprendesse davvero un atto di cannibalismo, lui ammise che i poveretti stavano solo mangiando carne di maiale. Secondo la rivista, “non si pubblicano mai le vere foto del cannibalismo perché sono, troppo ripugnanti” . Poco convinto, l’antropologo Lyle Steadman, dell’Arizona State University, ha compiuto delle ricerche e ha direttamente sfidato Gajdusek affermando che “non ci sono prove di cannibalismo in Nuova Guinea “. Steadman, che ha trascorso due anni in Nuova Guinea, ha detto di aver spesso sentito racconti di cannibalismo ma, quando ha cercato di andare a fondo della cosa, le prove sono svanite.
Offeso dall’accusa implicita di condotta disonesta, Gajdusek ha insistito nel dire che “possiede fotografie di vero cannibalismo”, ma non le pubblicherebbe mai perché “offendono i parenti delle persone dedite a questa pratica”. Questa affermazione contraddice le sue precedenti asserzioni che gli indigeni mangiavano i loro parenti morti per rispetto, e avevano smesso di farlo solo in ossequio alle pressioni del governo. Come prova del cannibalismo, Gajdusek citò anche l’arresto di indigeni per questo crimine, ma poi risultò che gli arresti si erano basati su dei “si dice “. Dal che si deduce che indigeni della Nuova Guinea sono stati accusati forse ingiustamente di pratiche cannibalistiche rituali.
Inoltre, poca gente al di fuori dell’équipe inviata inizialmente con Gajdusek ha mai visto personalmente delle vittime di kuru. Questo significa che la nostra conoscenza della, malattia dipende dalle sue descrizioni e statistiche, soprattutto perché lui sostiene che sia il cannibalismo sia il kuru sono cessati pochi anni dopo la sua visita del 1957. Virus fantomatici, trasmessi tramite fantomatici atti di cannibalismo, causano malattie fantomatiche. E concetto stesso di “virus lenti” non è mai stato messo in discussione da allora, nonostante i problemi di ordine etico e scientifico di autenticità ad esso collegati, né dalla letteratura scientifica, né dalla stampa ufficiale.”
Ma se queste sono le credenziali dei prioni, vale la pena soffermarsi sulle sbalorditive capacità ad essi attribuiti per giustificare la teoria delle “farine animali” e, soprattutto, su come è stata affrontata dai mass media e dalle autorità l’emergenza BSE e la sciagurata connessione di questa al morbo di Creutzfeldt-Jakob.
Articolo di Francesco Santoianni
(pubblicato, in lingua inglese, sulla rivista <<Disaster Management>>, 2001, 3, pagg. 64-92
Fine prima parte
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