Forse non è stata solo la sabbia a fare lacrimare gli occhi degli archeologi impegnati, nel 1996, in una serie di scavi a Ein Mallaha, nel deserto israeliano, quando nella tomba di un villaggio natufiano, risalente a ottomila anni fa, vennero alla luce i resti di un uomo anziano; giaceva in posizione fetale, con le ginocchia vicine al mento e la testa poggiata sulla mano sinistra. Nel liberare dalla sabbia la zona intorno alla mano, i ricercatori scoprirono che essa era posata sul petto di un cucciolo di cane di quattro o cinque mesi. Narrano le cronache che uno degli studiosi, sorpreso, si sia alzato e, asciugandosi gli occhi col dorso della mano sporco di sabbia, abbia detto: <<Deve avere davvero amato i cani, per portarsene uno nel viaggio verso l’eternità>>.
Ovviamente, ci auguriamo, che il vecchio non abbia avuto alcuna responsabilità nella morte del cagnolino e ci piace pensare che anche il ritrovamento di Ein Mallaha sia un’altra gemma di una infinita serie di testimonianze che, dagli albori della Storia, attestano l’amore dell’uomo per il cane.
Le remote origini del cane risalgono al tardo Oligocene, circa 30 milioni di anni fa, quando, in un clima planetario che andava raffreddandosi e che sarebbe sfociato nella Grande glaciazione del Pleistocene, dai Creodonti, un gruppo di mammiferi carnivori, dotati di notevole udito e olfatto, si distaccarono due famiglie, entrambe dotate di pelliccia: i Felidi e i Canidi. A differenza dei Felidi, animali sostanzialmente stanziali e solitari, che attendevano la preda per tenderle l’agguato, i Canidi seguivano la preda, anche per lunghe distanze. E, cacciando in branco, avevano, un capo. Grazie ad una eccezionale plasticità genetica, e cioè la capacità di selezionare rapidamente un genotipo perfettamente adatto ad un nuovo ambiente, i Canidi si sono diffusi in tutto il pianeta anche se, negli ultimi millenni, sciacalli, coyote, volpi, lupi con la scomparsa dei boschi e delle praterie si sono ridotti oggi a pochi esemplari. Non così una specie che, grazie all’opera dell’uomo, è oggi presente dappertutto in innumerevoli razze: il cane.
Il cane (Canis familiaris) è in effetti un lupo avendo lo stesso numero cromosomico – settantotto – e potendo accoppiarsi con esso generando prole. Certo, è difficile riconoscere in un, ad esempio, lezioso chihuahua le vestigia del tenebroso lupo, ma così è; e se questo è stato possibile, lo si deve all’incessante opera di selezione realizzata dall’uomo, cominciata verso la fine del paleolitico, quattordicimila anni fa, quando qualcuno pensò bene di tenersi nell’accampamento cuccioli di lupo che finirono per identificare nell’uomo il capo del branco al quale sottomettersi.
Questa dedizione permise di addestrare il lupo a cacciare per conto dell’uomo. Certamente, la prima cosa che gli fu insegnata fu non mangiarsi la selvaggina che aveva addentato ma riportarla integra al padrone. Come? Certamente con il “gioco delle due ossa” (che ai nostri giorni viene, generalmente praticato con due palle di gomma). Si fa così. Il padrone getta lontano un osso facendo correre l’animale il quale, generalmente, torna con il bottino ben stretto tra i denti. A questo punto, il padrone gli mostra un osso simile al primo che si affretta a rilanciare; l’animale, così disorientato, molla la presa e si lancia sul nuovo osso. Ripetendo con pazienza l’esercizio, l’animale (che bisogna pur premiare ogni tanto con qualche boccone) finisce per identificare nel padrone il fidato custode delle sue proprietà e diventa un cane da riporto. Con l’evoluzione delle tecniche di caccia, l’uomo ha escogitato tecniche sempre più sofisticate per selezionare e addestrare il cane a stanare la preda, a “puntarla”, a ucciderla, a spingerla a portata di tiro… Fino ad arrivare a razze di cani specificatamente selezionate per cacciare un particolare animale come le beccacce (Cocking Spaniel) o le volpi (Fox Terrier). Stessa selezione nell’impiego del cane nella pastorizia, nato quando ci accorse che alcuni cani ammantanti da una folta pelliccia tendevano a vedere nelle pecore allevate dall’uomo i propri cuccioli; il passo successivo fu, quindi, affidare ad essi la custodia del gregge che essi riuscivano ad irreggimentare e difendere dai predatori.
Sfruttando la variabilità genetica di questo animale, e quindi la tendenza a procreare esemplari di forma e indole inaspettata, l’uomo con pazienza e intelligenza ha “creato”, nell’arco di qualche millennio, almeno 700 razze di cani: dal Levriero, che, già nel tredicesimo secolo, veniva allevato nell’estremo Oriente, come “cane per ciechi”, al Bassotto, selezionato in Germania nel 1700 per intrufolarsi sottoterra e distruggere i tassi, al Rottweiler, erede dei feroci mastini impiegati dalle legioni romane… Del resto, già nel 600 a.C., Zaratustra asseriva che “Senza l’aiuto del cane, l’uomo non avrebbe potuto costruire le sue case, le sue città. Sull’intelligenza del cane si regge il mondo”.
Ma quale ruolo occupa, oggi, il cane nella nostra società? Dismessi gli abiti da “lavoro”, (con l’eccezione di qualche “cane poliziotto” assurto al rango di star televisiva) la stragrande maggioranza degli attuali cani domestici si limita, per lo più, a ciondolare da una poltrona all’altra nella spasmodica attesa della quotidiana passeggiatina intorno all’isolato. Nascono anche da questa inattività tutta una serie di nevrosi per curare le quali cominciano ad essere usati appositi psicofarmaci. Una recente inchiesta pubblicata dal Wal1 Street Journal stima in due miliardi di dollari per gli Stati uniti e un miliardo di dollari per l’Europa il business dei nuovi farmaci per gli animali domestici che potrebbe aprirsi nei prossimi anni. Il potenziale mercato è enorme: negli Stati Uniti sono ormai 261 milioni i “pets” (o animali da appartamento), più di 13 milioni in Italia. E così, una valanga di nuovi farmaci (quasi sempre al gusto di carne) si va indirizzando verso gli animali domestici: sono pillole contro le ulcere, per il trattamento di ossessioni e reazioni compulsive, per limitare le disfunzioni senili della conoscenza, e, soprattutto, ansiolitici, come il Clornicalm per sedare l’ansia da separazione nei cani: una nevrosi che spesso determina nel cane rimasto solo nell’appartamento crisi di una violenza difficilmente immaginabile e la conseguente devastazione dell’arredamento.
Non resta quindi che affidarsi ai farmaci per recuperare un rapporto con un cane difficile?
<<Al di là di casi specifici – ci dice la dott.ssa Alessandra Maltese, esperta del comportamento animale – molto può essere fatto utilizzando particolari tecniche di riabilitazione. Purtroppo, ancora oggi, molti pensano che il cane debba essere “educato” a suon di botte trasformando così quello che è un meraviglioso essere in una specie di automa. Il problema è che non ci si rende conto che il cattivo comportamento del cane spesso nasce da automatismi che noi, inconsciamente, gli comunichiamo. Poniamo il caso del cane che abbaia quando sente suonare il campanello dell’ingresso; comunemente si crede che questo dipenda dal rumore del campanello che “disturba” il cane facendolo, perciò, abbaiare. Ma allora, se così fosse, perché il cane non abbaia quando sente altri campanelli come, ad esempio, quello del telefono? In realtà il cane abbaia perché collega il suono del campanello, oltre all’imminente ingresso di un estraneo nel suo territorio, al nostro comportamento, spesso caratterizzato da un frettoloso accorrere verso la porta. Che fare allora? In alcuni casi è bastato semplicemente cambiare la suoneria del campanello o abituarsi ad avvicinarsi lentamente alla porta per fare cessare nel cane questa fastidiosa abitudine.>>
Le tecniche di educazione o di riabilitazione si basano, oltre che sul comportamento del padrone, sul gioco e sulla ricompensa che, molto più della punizione, servono ad inculcare al cane il comportamento da seguire. Poi c’è il corretto uso delle parole. Un cane addestrato può comprendere ed eseguire più di differenti 50 ordini verbali (addirittura più di 150 per alcuni “cani-poliziotto”) ma, al di là di quello che gli si dice, è il tono e la cadenza della voce ad essere di fondamentale importanza per cementare nel cane una ubbidiente amicizia.
Due psicologhe americane, Kathy Hirsh-Pasek e Rebecca Treiman, hanno addirittura studiato il cosiddetto “doggerel”, il linguaggio speciale che adoperiamo comunemente per parlare ai cani – mutuato dal “motherel” usato dalle madri per parlare ai propri bambini – dal ritmo cantilenante, talvolta di tono più acuto del normale, e ricco di ripetizioni. Il “doggerel” è completamente diverso dalla lingua che parliamo con gli adulti. Per esempio, la lunghezza media di una frase rivolta a un adulto si aggira intorno alle dieci, undici parole, mentre per i cani la media è di circa quattro. Usiamo più frequentemente imperativi, come «vieni qui» oppure «giù dalla poltrona». Inoltre facciamo domande; il doppio di quelle che facciamo agli esseri umani: anche se, ovviamente, non ci aspettiamo risposta. Si tratta di solito di frasi futili, del tipo «Come stai oggi, Lassie?». Facciamo molte domande retoriche che iniziano all’affermativo, e poi si voltano all’interrogativo al termine della frase: «Hai sete, vero?» e tendiamo a ripetere, a ripetere parzialmente, o a ridire un concetto con parole diverse, venti volte di più che nelle nostre conversazioni umane. Un esempio di questa ripetizione variata potrebbe essere: «Sei un bravo cane. Che bravo cane che sei!».
Ma in qualche caso il “doggerel” e tutto l’affetto del mondo non sono sufficienti ad educare il cane. Bisogna affidarsi, allora, agli “psicologi dei cani”; termine contestatissimo in quanto, ancora oggi, la maggior parte degli etologi (e quasi tutti gli psicologi) ritiene che per il cane si debba parlare di “comportamento” e non già di “psiche”, termine che, secondo essi, deve restare circoscritto ai soli esseri umani. Non abbiamo certo la pretesa di chiarire qui una questione così controversa ma ci piace ricordare che il Padre della psicanalisi, Sigmund Freud, spesso faceva presenziare le sedute terapeutiche al suo amato cane Jo-Fi che riteneva capace di valutare lo stato mentale dei suoi pazienti. La più importante associazione di “psicologi dei cani” è la Association of Pet Behaviour Counsellors nata, insieme alla Association of Pet Dog Trainers, nel 1978 quando a Londra, per creare un diversivo all’interno del Cruft’s, la iperblasonata esposizione canina, Peter Lewis (allora semplice “addestratore di cani” e oggi “Terapista Comportamentale”) fece compiere ad un suo cane una serie di esercizi e di percorsi estremamente complessi. Come aveva fatto Lewis ad “addestrare” così bene il cane? si domandarono sbalorditi i presenti. Venne fuori che le tecniche usate da Lewis (“soft obedience”) escludevano assolutamente l’uso della violenza ma si basavano, oltre che sulla ricompensa, su una attenta comprensione delle reazioni del cane evidenziate da segnali quali le innumerevoli posizioni che possono assumere le sopracciglia, la coda, le orecchie, il pelo… Da allora i corsi di soft obedience (da noi tenuti da Aldo La Spina, unico membro italiano dell’Association of Pet Behaviour Counsellors) per prevenire i disturbi comportamentali nei cani e, soprattutto, per educare il padrone ad avere un corretto rapporto con il cane si sono moltiplicati estendendosi a più di venti nazioni.
E intanto per tutti gli altri cani “nevrotici”, ipernutriti, coccolati e comodamente acquattati sulla poltrona, dove mai avrebbero dovuto salire, l’industria farmaceutica continua a sfornare ansiolitici: quasi a suggellare l’esito finale di una simbiosi umani/animali, in cui, invece di diventare noi un po’ più cuccioli, sono stati i nostri piccoli amici, con la depressione e il disagio mentale, a “umanizzarsi”.
Articolo di Francesco Santoianni
Cani troppo umani
Pubblicato su Newton ottobre 1999