Fatti dannati (sui “Bolidi di ghiaccio” e altri insoliti fenomeni nell’atmosfera) (mai pubblicato: nel 2001 per questo articolo fui buttato fuori da una “prestigiosa rivista scientifica con la quale collaboravo da anni)
“Vi sono in cielo e in terra, Orazio, assai più cose di quante ne sogna la tua filosofia.” William Shakespeare, Amleto, I, 5,
Una cosa è certa. Se non ce ne saranno altri, i “bolidi di ghiaccio”, che, per settimane, hanno riempito le pagine dei giornali e i notiziari televisivi, rischiano di allungare la lista di quelli che Charles Fort chiamava “fatti dannati”: sbalorditivi episodi, cioè, che la Scienza (quella con la “S” maiuscola) si ostina ad ignorare o che, non essendo in grado di spiegare, liquida con una scettica alzata di spalle archiviandoli per sempre come scherzi o truffe. E così, dopo essere stati costretti per giorni a balbettare sotto gli occhi impietosi delle telecamere che cosa i blocchi di ghiaccio non potevano essere (né grandine, né comete, né ghiaccio formatosi sulla carlinga degli aerei o scaricato da aerei cargo) ora non pochi accademici tornano al contrattacco parlando di psicosi di massa o, ancora peggio, pretendendo di ammantare il fenomeno con “spiegazioni” già smentite da una puntuale ricognizione dei fatti. Sembra di essere tornati al 1760 quando una commissione composta dai più insigni scienziati dell’Académie Française, dopo quattro anni di lavori, sentenziò escludendo tassativamente che potessero cadere pietre dal cielo. Proprio quell’anno, il 24 luglio, una pioggia di meteoriti cadde nel sudovest della Francia e furono mandate all’Académie Française più di 300 testimonianze e campioni delle rocce. Ma gli accademici non li considerarono assolutamente e dichiararono la pioggia di meteoriti un “fenomeno materialmente impossibile” e “ciarlatano” chi osava testimoniare il contrario. E lo stesso sprezzante atteggiamento continua ancora oggi. Anche davanti a fenomeni che, per le numerose, e spesso autorevoli, testimonianze, non è certo legittimo liquidare come frottole. Come quelli riportati in queste pagine.
Bolidi di ghiaccio
Le prime segnalazioni risalgono al medioevo. Un blocco di ghiaccio, delle dimensioni di 5x2x3,5 metri -riferisce Camille Flammarion, un astronomo francese del secolo scorso- sarebbe caduto in Francia durante il regno di Carlo Magno; un altro bolide – una sfera della circonferenza di sei metri – sarebbe caduto a Ord, in Scozia, nel 1849. Considerando che questi blocchi di ghiaccio non avrebbero potuto essere resti di comete (se fossero stati i resti di una cometa, questa disintegrandosi ad alta quota avrebbe provocato una catastrofe sulla Terra) il mondo accademico ha sempre negato la loro esistenza. Stesso atteggiamento davanti ad altre innumerevoli segnalazioni: più di un migliaio catalogati da Charles Fort tra il 1900 e il 1930. Il 4 giugno 1953 almeno 50 bolidi di ghiaccio (alcuni del peso di 75 chilogrammi) si schiantano a Long Beach in California, lo testimoniano più di venti persone; il 23 gennaio 1972, a Surrey in Inghilterra, la caduta di un bolide di ghiaccio è attestata da fotografie e decine di testimonianze; il 3 dicembre 1973 un bolide di ghiaccio schianta il tetto di una fattoria a Fort Pierce in Florida… Anche in questi casi le autorità scientifiche si limitano ad una scettica alzata di spalle o, peggio ancora, si affrettano a “spiegare” l’episodio addebitandolo al rilascio di liquidi da parte di aerei. Effettivamente, nel settembre 1964, un blocco di ghiaccio caduto nel Transvaal in Sud Africa, aveva rivelato alle analisi, effettuate dal Laboratorio Nazionale di Ricerca Fisica di Pretoria, tracce di te, caffè e detergenti: verosimilmente doveva provenire dallo scarico accidentale di un aereo di linea decollato, dieci minuti prima dell’impatto, dall’aeroporto Jan Smuts. Ma è uno dei pochissimi casi per i quali si è trovata una convincente spiegazione.
Il 2 aprile 1973 una testimonianza al di sopra di ogni sospetto. Il dottor R. S. Griffiths ricercatore del Dipartimento di Fisica della Manchester University, mentre percorre la strada verso casa, nota un violento lampo di luce sopra di lui. Essendo un osservatore ufficiale di fulmini per la Electrical Research Association in Inghilterra, Griffiths prende nota di alcuni dati quali l’orario, le condizioni atmosferiche la posizione stimata del fulmine…, poi continua a camminare. Nove minuti dopo, un bolide di ghiaccio si abbatte nella strada a soli tre metri da lui, frantumandosi in diversi pezzi. Griffiths li raccoglie e corre verso casa per metterli nel freezer; l’analisi di quel ghiaccio (composto sostanzialmente da acqua demineralizzata, come i bolidi caduti a gennaio in Italia) e le dettagliate osservazioni dello scienziato avrebbero potuto costituire la base per progetti di ricerca tesi ad appurare questo enigmatico fenomeno. Ma non è così. Ancora una volta vince lo scetticismo e, forse, il timore accademico di confrontarsi con argomenti dai quali è bene stare alla larga. E così, ancora oggi, i bolidi di ghiaccio restano ammantati dal mistero.
Piogge “strane”
Un testo del 200 d.C., I Dipnosofisti, riferisce che <<…nel Chersoneso una volta per tre giorni senza interruzione piovvero pesci.>> Un’altra descrizione nello stesso libro racconta di una pioggia di rane in Sardegna affermando che: <<…il numero di queste rane è stato così grande che hanno riempito le case e le strade. Dapprima la gente cercò di salvarsi dalla piaga uccidendole e serrando le porte, ma (…) i mucchi di rane erano dappertutto e c’era un odore terribile provocato da quelle che morivano, così che la gente abbandonò il paese.>> Le segnalazioni di “piogge di rane” sono innumerevoli: Charles Fort ne aveva archiviate migliaia, alcune famosissime, come le milioni rane eruttate da una nube su Gibilterra il 25 maggio 1915. Una delle ultime e più note apparizioni di questo fenomeno avvenne, nel 1977, nei pressi di Londra meritando, addirittura, una segnalazione sulle austere pagine del Times. Ma qual è l’origine di questo fenomeno?
Ogni tanto qualche accademico trascinato davanti alle telecamere per “spiegare” qualche pioggia di rane che, ogni tanto, viene segnalata, solitamente, non trova niente di meglio che addebitarle a trombe d’aria ed eccezionali correnti atmosferiche. Un precedente sembrerebbe accreditare questa teoria. La pioggia di migliaia di uccelli morti, abbattutisi sulla base sulla base aerea di Barksdale Field in Luisiana il 20 marzo 1940, fu determinata – come accertò una puntigliosa inchiesta dell’Air Force -, da una improvvisa corrente d’aria che aveva portato ad alta quota gli animali provocandone una emorragia polmonare. Questa ipotesi sembrò reggere fino al 1985 quando un ricercatore dell’Università di Cambridge, Donald F. Tracy, verosimilmente stroncando la sua carriera accademica, pose sui giornali una domanda: ma come farebbero le rane che, secondo questa ipotesi, dovrebbero, essere state sballottate in alta quota per centinaia di chilometri, a cadere vive al suolo? Per quanto ne sappiamo, nessuno scienziato si è mai degnato di rispondere a questa obiezione e la domanda sul perché delle piogge di rane resta ancora senza risposta. Così come, in assenza di qualsiasi progetto di ricerca, restano inspiegate “piogge” di altri animali che ogni tanto si registrano (i casi più famosi sono la pioggia di vermi neri che si abbatté su tutta la Romania nel 1872, una pioggia di vermi nello stato di New York nel 1982, una pioggia di serpenti che si abbatté su Memphis nel Tennesee il 15 dicembre 1876) o le onnipresenti piogge dei cosiddetti “capelli d’angelo”: filamenti di materiale gelatinoso che si dissolvono pochi minuti dopo avere toccato il suolo, un fenomeno già conosciuto nelle tradizioni gallesi come “pwdre ser” che qualcuno (gli stessi che spiegano i cerchi nel grano come prodotti dalla danza di porcospini) si ostina, ancora oggi, a considerare prodotto della “migrazione di ragni”.
Palle di luce
Verso le cinque del mattino dell’11 marzo 1963, un passeggero solitario ed una hostess stavano sonnecchiando l’uno di fronte all’altra in un aereo delle Eastern Airlines, volo 539 da New York a Washington. D’un tratto, quello che sembrava un lampo avvolse l’aereo e si verificò una scena allucinante. Davanti alla porta che dava accesso alla cabina del pilota era apparsa una sfera incandescente di circa 20 cm di diametro, di un colore azzurrino, sospesa a mezz’aria. Mentre i due, attoniti, la fissavano, la palla di luce percorse il corridoio con velocità costante e scomparve vicino alla toilette all’altro capo dell’aereo. Certamente l’episodio sarebbe stato classificato come una allucinazione e relegato in uno dei tanti giornaletti esoterici se quel passeggero non fosse stato, nientedimeno, che il professore Robert C. Jennison, direttore dei Laboratori Elettronici dell’Università di Kent, nel Canterbury. E Jennison non si era perso d’animo: superato lo sbigottimento, aveva annotato sul suo taccuino particolari quali le dimensioni e la velocità della sfera, la circostanza che non emetteva calore e che non era di natura magnetica, (il temperino e la scatola metallica del tabacco che aveva in tasca non risultavano magnetizzati), tutti i dati registrati dagli strumenti di bordo… Considerando l’autorevolezza dello scienziato, la sua relazione sull’avvenimento fu pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature e per il modo accademico fu l’inizio di un calvario.
Le “palle di luce” (dette anche “Ball Lightning”, o “fulmini globulari”), infatti, nonostante le testimonianze sulla loro esistenza si perdano nella notte dei tempi, fino ad allora erano state relegate dalla Scienza come una diceria dalla quale stare alla larga; non a caso la prima catalogazione degli avvistamenti di “palle di luce” (realizzata nel 1830 da François Arago direttore dell’osservatorio di Parigi) per decenni non era stata ripresa da quasi nessun accademico e neanche le prime ipotesi scientifiche sull’origine di questo fenomeno, avanzate, nel 1955, da Petr Kapitza, erano riusciti ad entusiasmare gli animi e far partire un qualche progetto di ricerca.
Verosimilmente, a determinare questo ostracismo contribuiva l’impossibilità, per chi ci tenesse alla sua reputazione, di accettare o, addirittura, di “spiegare” sbalorditivi episodi come quello verificatosi nei sobborghi di Londra il 3 ottobre 1936 quando un giornalista del “Daily Mail”, che si trovava a casa durante un temporale, vide scendere dal cielo una sfera luminosa arancione, grande come un’arancia, che, bruciacchiando la finestra, entrò in casa, fuse i fili del telefono e si tuffò in una tinozza piena di d’acqua scomparendo per sempre. Altro mistero a Smethwick in Gran Bretagna; lì, l’8 agosto 1975, durante un temporale, una donna che si trovava in cucina venne “investita” da una “palla di luce”, sospesa a circa un metro da terra, di colore blu che le provocò un buco di 10×7 cm nella gonna e una ustione alla mano sinistra, prima di sparire con un bang. Ma non sempre le “palle di luce” si limitano a provocare qualche bruciacchiatura. Nel “Progetto di catalogazione delle osservazioni italiane di fulmini globulari” presentato – da Paolo Toselli (CISU) e da Renato Fedele (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Dipartimento di Scienze Fisiche, Università “Federico II”) – al Sixth International Symposium on Ball Lightning, tenutosi ad Anversa (Belgio) nell’agosto 1999, sono riportati i casi di sei persone uccise da “palle di luce”: l’ultimo si è verificato ad Alpignano, in provincia di Torino, il 3 marzo 1969.
Ma qual è l’origine di queste “palle di luce”? Le teorie sono tante, quasi quanto i fisici che le studiano. Ancora oggi non si sa quale tipo di energia – elettrica, elettromagnetica, nucleare, o di altro genere – animi queste sfere né se provenga dall’interno o dall’esterno del corpo luminoso. C’è perfino chi ha suggerito possano essere minuti frammenti di antimateria, di origine meteoritica. Nonostante non si sappia ancora praticamente niente su di esse, le “palle di luce” da qualche tempo vengono citate dalla Scienza per “spiegare” un altro “mistero” quello degli UFO che, secondo alcune screditate associazioni, trasporterebbero alieni venuti sulla Terra per, tra l’altro, rapire esseri umani o mutilare animali. Gli “ufologi”, dal canto loro, sono partiti al contrattacco e recentemente hanno fatto notare come proprio la prima catalogazione delle “palle di luce” (fatta in Italia nel 1914 da I. Galli, della Pontificia Accademia Romana dei Nuovi Lincei), citata dai detrattori della teoria aliena riporta, in realtà, casi di asportazioni chirurgiche su animali che rimanderebbero ad un malvagio esperimento condotto dagli Alieni. In ogni caso, le ricerche per appurare cosa siano veramente queste “palle di luce” (o i “bolidi di ghiaccio” o, addirittura, le “piogge strane”) languono in attesa di finanziamenti e la stragrande maggioranza degli accademici continua a mantenersi alla larga da questi fenomeni.
Fatti dannati, appunto.
Riquadro:
Spiegare l’inspiegabile. Chi era Charles Fort
Charles Hoy Fort nacque il 9 agosto 1874 ad Albany, nello stato di New York. Animato da un’insaziabile curiosità, trascurò il suo innegabile talento di scrittore e di giornalista per consacrarsi alla raccolta di notizie “strane”, da lui denominati i “fatti dannati”: bolidi di ghiaccio, inesplicabili luci nel cielo, geroglifici ritrovati su meteoriti, nubi triangolari, piogge di sangue, di carne, di rane… Pur di potere consultare i libri e i giornali alla New York Public Library, Fort si adattò ai più svariati lavori, quali il guardiano notturno, l’impiegato in un night, il lavapiatti… Poverissimo, in una rigida giornata d’inverno, Fort e la sua rassegnata moglie Anna Filing, arrivarono a bruciare i mobili più vecchi per difendersi dal freddo. Nel 1916, una inattesa eredità permise a Fort di dedicarsi completamente alla sua passione e nel 1919, i 40.000 “fatti dannati”, diligentemente annotati su pezzi di carta marrone si trasformarono in un libro – The book of the damned – pubblicato grazie all’intercessione del suo unico amico, il famoso romanziere Theodor Dreiser. Nonostante un discreto successo editoriale, Fort cadde una crisi depressiva che lo spinse a dare fuoco ai suoi preziosi appunti e partì con la moglie in Inghilterra.
Per otto anni Fort trascorse le sue giornate al British Museum a consultare antichi libri e, soprattutto, riviste e bollettini scientifici, che pure riteneva espressione di quell’establishment scientifico che tanto detestava, alla ricerca di altri “fatti dannati”, soprattutto esplosioni aeree, talora accompagnate da bagliori; nel 1923, li pubblicò nel libro, New Lands che teorizzava l’esistenza di “nuove terre”, un “altrove” posto nel cielo, che originava gli insoliti fenomeni.
Nel 1929 Fort e la moglie fecero ritorno nel loro appartamento nel Bronx che ben presto si riempì di “oggetti impossibili” come – scriverà Tiffany Thayer, una delle prime “seguaci” di Fort – una lastra di asbesto caduta dal cielo. Nel 1931 Fort pubblicò il libro intitolato Lo! (contrazione americana di Look, «Guarda!») dedicato principalmente ai fenomeni aerei non identificati anticipando, così, di sedici anni l’esplodere del fenomeno degli UFO. Mentre le condizioni di salute di Fort andavano aggravandosi e la sua vista diventava sempre più debole, il 26 gennaio 1931 Tiffany Thayer fondava la «Fortean Society», che dopo la morte di Fort, avvenuta il 3 Maggio 1932, ha conosciuto molte scissioni tradottesi in almeno quattro organizzazioni, otto giornali e innumerevoli siti Internet. Oggi molti dei “fatti dannati” catalogati da Fort sono stati attentamente riesaminati da storici e da studiosi: alcuni si sono rivelati essere frottole inventate di sana pianta dai giornali; altri, invece, convalidati da numerose testimonianze, sono ritenuti veri anche se, ovviamente, il mondo accademico continua a liquidarli con una scettica alzata di spalle. E, forse, aveva ragione Fort quando scriveva: “Io non respingo nulla del reale perché una scienza futura scoprirà relazioni sconosciute tra i fatti che appaiono oggi senza rapporto. La scienza ha bisogno di essere scossa da uno spirito avido, benché non credulo, nuovo, selvaggio. Il mondo ha bisogno di un’enciclopedia di fatti esclusi, di realtà oggi condannate al clamore del silenzio.”